Palazzo Vecchio della Borsa
Dove
piazza della Borsa, 14
Come Arrivare
autobus n. 11, 14, 17, 18, 25, 28
A fine ‘700 si rende necessaria una sede dignitosa per le riunioni di Borsa. Il committente dell’edificio è la Deputazione di Borsa, che indica chiaramente gli aspetti utilitari e le soluzioni formali, ma lascia ad altri più competenti il giudizio estetico. La spesa viene sostenuta con la sottoscrizione di azioni da parte dei deputati e dei negozianti di Borsa.
Il fondo allora paludoso viene acquistato nel 1799: i progetti preliminari del 1800 vengono fatti da Matteo Pertsch (che allora costruiva il Teatro Nuovo e Palazzo Carciotti ) e dal maceratese Antonio Mollari: i due sono in lizza per l’assegnazione del progetto. La scelta è difficile per la diversa origine dei due architetti e la decisione finale viene delegata all’Accademia di Belle Arti di Parma: questa sceglie il progetto del Mollari, che oltretutto lo aveva anche modificato, allorché il terreno disponibile era risultato più grande del previsto.
La costruzione effettiva inizia nel 1802 e l’edificio, fra alterne vicende, viene inaugurato il 6 settembre 1806.
Nel 1844 la Borsa verrà trasferita al palazzo del Tergesteo, mentre il vecchio palazzo diventerà sede della Camera di Commercio, tuttora ivi insediata.
Nel 1928 la Borsa cambiò ancora sede, passando nell’edificio attiguo (costruito come ristorante-birreria dell’ex fabbrica Dreher) ristrutturato dall’ingegner Eugenio Geiringer e dall’architetto Gustavo Pulitzer Finali.
Il prospetto principale sulla piazza della Borsa, è ovviamente quello di maggior risalto. La facciata richiama un tempio greco, con il colonnato dorico, ispirato al Vignola, completo di metope (con dipinti i simboli del commercio) e triglifi, e coronato dal timpano.
Alla decorazione della facciata del Palazzo della Borsa alla quale collaborarono tre artisti veneti: Antonio Bosa, Bartolomeo Ferrari, Domenico Banti, insigni professori all’Accademia di Belle Arti di Venezia.
Si osserva da sinistra a destra, nelle nicchie al piano terreno, Asia di Banti, Africa di Ferrari, America di Bosa ed Europa di Ferrari (tutte del 1806), statue colossali, dall’impianto compatto e dalla struttura solida.
Intervallate alle finestre del primo piano, altre due sculture dello stesso anno, Vulcano di Banti e Mercurio di Ferrari, l’una dal viso carnoso e realistico e coi muscoli in evidenza, l’altra più idealizzata.
Più in alto, sulla balaustra della facciata, si vedono, da sinistra a destra: Danubio, il Genio di Trieste, Minerva e Nettuno, tutte opere di Antonio Bosa. Danubio (1820), statua commissionata in un primo tempo allo scultore Sigismondo Dimech, è tutta avvolta da un ricco mantello, il cui panneggio morbido dà quasi un senso di movimento; il Genio di Trieste (1806) appoggiato ad uno scudo con le armi della città di Trieste, è una figura dall’impianto classico; Minerva (1806), rappresentata con la solita iconografia (elmo e testa di Medusa sul petto), regge con una mano lo scudo con l’effige di Francesco II e con l’altra lo indica al Genio di Trieste. Infine Nettuno (1820) ha pure un impianto solido, ma il volto è carnoso e realistico. Sul timpano della facciata, ai lati dell’orologio, si notano due figure alate rappresentanti la Fama opera del Bosa del 1820, quella di sinistra regge una tromba (simbolo della diffusione di notizie), quella di destra la cornucopia dell’abbondanza e della Fortuna. Il lavoro più pregevole eseguito da Bosa per la Borsa è costituito dai quattro altorilievi con motivo di putti rappresentanti, da sinistra a destra, le allegorie del Commercio, della Navigazione, dell’Industria e dell’Abbondanza. Si tratta di vere e proprie statuine, totalmente distaccate dal fondo, scolpite in modo naturalistico e collocate nello spazio in modo verosimile. I temi di questi rilievi furono dettati ad Antonio Bosa dall’architetto Pietro Nobile nel 1816; essi furono consegnati nel 1821, anno del completamento della decorazione della facciata dell’edificio.
Anche la lapide di marmo bianco con iscrizione latina, posta sopra l’ingresso, è di Antonio Bosa (1820); il testo dell’iscrizione è del celebre Labus.
Le facciate laterali hanno, come la facciata a mare, il bugnato nel basamento e soltanto le finestre come decorazione. Ma esse presentano anche due avancorpi decorati con pilastri dorici, corrispondenti alla facciata principale, ma privi di frontespizio, assente poiché manca il tetto.
Nell’interno è interessante osservare la Loggia del pianterreno, con colonne doriche binate, sul pavimento c’è una splendida meridiana, opera del friulano Sebastianutti e datata 1820 (lunga 12 metri e larga dai 28 ai 73 centimetri), che riceveva un raggio di luce da un foro nel muro perimetrale e segnava per dieci minuti il mezzogiorno locale, ora di chiusura delle contrattazioni di Borsa. La meridiana segna ancora bene il tempo locale medio, ma non più con precisione il giorno, poiché i muri perimetrali si sono assestati col tempo a una quota inferiore per un lieve cedimento del terreno.
La decorazione scultorea era stata commissionata nel 1805, ma le ultime statue vennero consegnate appena attorno al 1820, per cui quattro di queste sono state collocate all’interno, e precisamente nella Gran Sala del primo piano, con i capitelli corinzi e il colonnato “ammezzato” creato da Palladio e ripreso dal neopalladianesimo americano. La volta della sala al centro è affrescata con una scena evocativa della proclamazione del Porto Franco di Trieste da parte di Carlo VI, opera di Giuseppe Bernardino Bison, fiancheggiata da cassettoni romboidali dipinti a chiaroscuro e da figurazioni anticheggianti che alludono al commercio e all’industria.
Palazzo Costanzi
Dove
piazza Piccola, 3
Come Arrivare
autobus n. 8, 9, 10
La famiglia Costanzi commissiona a Pietro Nobile un progetto per un fondo di proprietà dalla metà del ‘700. Lo studio presenta non pochi problemi sia per la varietà del terreno sia per il rinvenimento dei resti archeologici di un porto romano.
Poco prima della partenza per Vienna, Nobile progetta, secondo la memoria locale un edificio per Giobatta Costanzi, cancelliere di sanità. Nel 1840 subentra un altro proprietario, Daniele Caroli, che chiama l’anno dopo l’architetto Valentino Valle per aggiungere una parte dell’edificio a quella già esistente dal 1817 secondo lo stesso modello. Otto anni dopo Panajotti Giorguli acquista tutto il complesso che ora è adibito a uffici comunali e in una parte del pianterreno a sala di esposizioni.
Una soluzione urbanistica discutibile e un intervento di restauro traumatico hanno alterato l’aspetto originario dell’edificio che a tutt’oggi, peraltro, mantiene nelle sue linee compositive una sua sobria dignità.
Le facciate verso piazza Piccola e alle due estremità dell’edificio sulla via della Muda Vecchia presentano al piano terra tre semplici aperture per lato, sovrastate da tre oculi di palladiana memoria. Al primo piano un balcone con tre portali ad arco su un paramento murario a leggero bugnato; al piano superiore tre finestre sovrastate da una decorazione a bassorilievo e fiancheggiate da due colonne doriche con capitello, che seguono il modello del Partenone di Atene; all’ultimo piano una fila ulteriore di finestre. Il resto dell’edificio mostra sei paraste doriche, una serie di finestre e al di sotto un’altra serie di aperture a pieno centro.
L’estrema pulizia del prospetto, che nulla concede al fattore decorativo, risente di una certa classicità filtrata attraverso lo studio dell’antico in Palladio
Negli interni degna di nota è la scala principale. A pianta quadrata e prospiciente un ambiente semicircolare, ha due colonne di ordine dorico al piano terra e al primo piano e altrettante di ordine ionico al secondo. Qui l’autore, a differenza degli altri progetti, fa ricorso a colonne con capitelli che seguono le indicazioni dei teorici cinquecenteschi sull’uso degli ordini.
Palazzo Eisner Civrani
Dove
via della Procureria, 2
Come Arrivare
autobus n. 8, 9, 10
L’edificio fu eretto, molto probabilmente, nel 1804 (data che compare nella targa apposta sul portone centrale), ma l’architetto che lo progettò è rimasto anonimo. A conferma di questa data c’è anche un documento conservato all’Archivio di Stato, datato 22 dicembre 1803 in cui Maria Teresa Civrani e suo marito Carlo Leopoldo Eisner chiedono la riedificazione delle loro tre vecchie case, site in piazza Piccola, i cui numeri tavolari corrispondono a quelli dell’attuale Palazzo Eisner-Civrani.
Il palazzo, proprietà di MariaTeresa Civrani e del marito Carlo Leopoldo Eisner, passò in eredità ai loro figli, che nel 1850 lo vendettero alla famiglia Polacco. L’ultimo erede, Alfonso Polacco, la lasciò in eredità la casa al Comune.
Il grande edificio appare molto sacrificato dietro il palazzo del Municipio, questo infatti si addossa proprio sul lato nel quale la casa presenta la facciata più estesa e decorata. Solo il prospetto sulla piazza Piccola può godere di maggior respiro e quindi far apprezzare all’osservatore, anche se in modo minore, l’eleganza delle sue forme.
L’edificio poggia compatto su di un basamento rivestito in bugnato a conci in pietra bianca, interrotto, a metà altezza, da una tettoia in forte sporto, sostenuta da finta travatura in pietra.
Sul lato via della Procureria un grande portale, con foro rettangolare e lunetta, è sormontato da ampie e ricche mensole – decorate con festoni di rose a rilievo e motivi vegetali -che sorreggono un balcone con balaustra in ferro battuto, nel quale si apre una porta con timpano raccordato da slanciate mensole scanalate. Il basamento, molto alto, comprende anche l’ammezzato, che si presenta con finestre quasi quadre e molto semplici.
La facciata è scandita orizzontalmente dai marcapiani, che si susseguono ai vari ordini, collegando i davanzali delle aperture e creando un effetto molto compatto nelle forme quasi “fasciate” del complesso murario. Tale realizzazione, che potrebbe suscitare una sensazione di staticità e di pesantezza, è superata dallo slancio delle proporzioni delle finestre molto allungate, che conferiscono all’insieme ariosità e leggerezza.
Gli angoli del prospetto sulla piazza Piccola sporgono lievemente e soprattutto risultano evidenziati nel basamento, dove il rivestimento in conci di pietra bianca crea l’effetto di finte lesene e la particolare modanatura del marcapiano, su di esse, suggerisce alla mente il motivo del capitello dorico.
Casa Fontana già Pitteri
Dove
via Roma, 5
Come Arrivare
autobus n. 5, 9, 10, 11, 18
Questo edificio fu costruito per Giovanni Battista Pitteri, ma dopo poco tempo (forse già in fase di costruzione) lo stabile fu acquistato da Carlo d’Ottavio Fontana, ricco esponente della vita economica triestina. Nel 1808, Fontana inaugurava in questa sede un albergo, come annuncia la locandina pubblicitaria in quattro lingue. Dal 1948 è proprietà del Banco di Sicilia, che nel 1974 ha trasferito ivi la sua sede. L’impianto generale, realizzato con elegante maestosità, manifesta caratteristiche molto vicine al linguaggio di Matteo Pertsch [Wolfgang Bensch in un suo saggio del 1974, infatti, riporta di aver scoperto documenti che attesterebbero la paternità di questo edificio al Pertsch, il quale nel 1807 faceva richiesta ed otteneva permesso per costruirlo. Il progetto però non si conserva negli archivi locali, ma da un’analisi stilistica tale attribuzione sembra molto plausibile].
L’edificio sviluppa le sue fronti su tre vie, volgendo la facciata principale sulla via Roma. La facciata principale presenta l’inserimento di pannelli a rilievo, interrotti dall’intersezione delle lesene e lo sviluppo di un alto basamento in cui viene inserito il primo piano, con la conseguente connotazione distintiva del secondo, è nota caratteristica del linguaggio di Pertsch, riscontrabile anche in altre sue opere.
Il prospetto si sviluppa nella sua ampiezza ritmato da tre nuclei decorativi, individuati dagli specchi rientranti ornati di bassorilievi e lesene ioniche lisce di ordine gigante. Queste si impostano sulla larga fascia marcapiano, che corre lungo tutto l’edificio in corrispondenza delle balaustre in ferro battuto a finto balcone.
Sui lati brevi, pur mancando il motivo delle lesene, permane l’effetto coloristico realizzato con semplicità quasi geometrica nella riproposta dello specchio rientrante diviso dal pannello a rilievo continuo. Un cornicione molto aggettante separa l’ultimo piano (probabile intervento in corso d’opera), dove tutte le finestre sono inserite in specchi quadrati rientranti con un risultato di estrema vivacità. La densità di ritmo delle aperture, dovuta forse all’originaria destinazione dell’edificio ad albergo, rende molto piacevole lo svilupparsi del discorso decorativo cui partecipa, recando all’insieme un effetto di dinamica scansione.
I bassorilievi sono stati scolpiti intorno al 1808 da Antonio Bosa. I temi sono desunti dal consueto repertorio antico: baccanali, are sacrificali, suonatori, scudi, lance. È difficile attribuire loro un significato preciso. Sulla facciata situata sulla via Roma riconosciamo Perseo trionfante sulla Medusa e Penteo ucciso dalle Menadi.
Palazzo del Hotel De La Ville
Dove
riva III Novembre, 11
Come Arrivare
autobus n. 8, 9, 10, 11, 18,
La città nella prima metà dell’Ottocento vive un periodo di grande espansione economica: si sviluppano le industrie, le importazioni, le esportazioni e gli investimenti, si aprono i mercati, si costruiscono molti alberghi. L’albergo Metternich, poi chiamato Hotel de la Ville, oggi sede della Banca Popolare di Novara, fu per molti anni il più importante della città.
Progettato da Giovanni Degasperi (come risulta dal progetto conservato all’Archivio comunale) in forme di “nobile semplicità e pacata grandezza”, come direbbe il padre della cultura classica, Winckelmann, presenta tuttavia alcune inquietudini compositive nel disegno e nella costruzione dell’ordine architettonico.
La facciata viene suddivida dall’architetto in cinque parti, una centrale e due laterali, formate rispettivamente da quattro e da due paraste in ordine gigante con capitelli corinzi e due intermedie senza colonnato ritmate da finestre con piattabande appoggiate a mensole al piano inferiore e semplici a quello superiore.
Le due paraste laterali chiudono l’angolo della costruzione continuando anche nelle pareti laterali; in questo modo la parasta si trasforma in pilastro d’angolo.
La facciata bugnata del piano terra dell’Hotel de la Ville ha forti tensioni eclettiche. L’ordine ha la stessa suddivisione delle parti superiori in ordine tuscanico e le due parti intermedie (le più semplici nella partitura superiore) vengono suddivise nella metà orizzontale e caricate di pieni e vuoti, di profili e di decorazioni. Quattro pilastri, sempre in ordine tuscanico, sostengono una architravatura sulla quale si aprono delle lunette semicircolari.
La destinazione ad albergo induce l’architetto ad una configurazione caratterizzata ed ariosa, aperta tra esterno e interno, come se il suo compito fosse stato quello di rendere discreto l’uso di uno spazio pubblico, o di chiudere, non nascondendo l’interno, un loggiato.
Bassorilievi
Pietro Zandomeneghi, figlio di Luigi, scultore veneto, lavorò ai tondi decorativi che rappresentano le parti del mondo. Più tardi la munificenza del cav. Revoltella, nuovo proprietario, fece aggiungere i rettangoli scolpiti a bassorilievo, rappresentanti l’Onore, l’Industria, la Navigazione, la Riflessione, la Religione, la Costanza, la Beneficenza e il Commercio. Questi bassorilievi sono opera degli scultori Giuseppe Moscotto e Giovanni Depaul (1860 ca).
Curiosità
Una lapide posta sulla sinistra della facciata nel 1913, in occasione del centenario della nascita Giuseppe Verdi, ricorda che nel 1850 il musicista scrisse la sinfonia dello Stiffelio andata in scena, per la prima assoluta, al Teatro Comunale il 16 novembre dello stesso anno.
La Lanterna
Dove
molo Fratelli Bandiera
Come Arrivare
autobus n. 8, 9
Il luogo in cui sorge era stato prescelto, già in epoca romana, quale luogo di segnalazione marittima, onde evitare incagliamenti sulle pericolose emersioni dello Scoglio dello Zucco (cronache del ‘600 riportano la testimonianza dei ruderi del faro romano). Nel ‘600 un Capitano Cesareo fece costruire, come ex voto, una cappelletta dedicata a San Nicolò con funzione di segnale, tramite una lampada perpetua. Nel 1744 Maria Teresa iniziò la poderosa costruzione di un molo che doveva congiungere la terraferma aglio scoglio dello Zucco; i lavori di costruzione durarono diversi anni e costarono ingenti somme alle casse dell’Impero, tanto che Napoleone volle visitarlo durante il suo soggiorno a Trieste nel 1797. Alle sua estremità venne costruito un faro ma di poca portata che funzionò dal 1769 al 1833 quando fu sostituito dall’odierna Lanterna.
La storia legata alla realizzazione di questa Lanterna fu molto travagliata sia per quanto riguarda l’approvazione dei progetti, che per la sua realizzazione.
Matteo Pertsch dovette presentare diversi progetti (1824, 1827, 1829, 1830-1831) prima di giungere a quello definitivo approvato nel 1831 da Pietro Nobile, allora Consigliere Aulico edile della Direzione delle Fabbriche. Durante i lavori poi, si dovette procedere ad una opera di consolidamento delle fondamenta, tramite un basamento di travi di rovere incrociate, poiché la costruzione non si sarebbe appoggiata soltanto sull’esistente scoglio dello Zucco, ma avrebbe esteso le sue fondazioni anche sul terreno melmoso circostante, pregiudicandone così la staticità.
La Lanterna ha forma di colonna leggermente rastremata verso l’alto. Essa nasce da una struttura tronco-conica della circonferenza di 60 metri, appartenuta ad un bastione pentagonale preesistente, che venne modificato e adattato per la sua nuova funzione quale basamento. In esso sono praticate sedici finestre quadrate, incorniciate in pietra calcarea di Aurisina e sormontate da una trabeazione coronata con una larga merlatura, che richiama la sua origine fortilizia.
Il fusto della Lanterna termina con una specie di capitello dorico, reso con mensoloni in pietra, reggenti un ballatoio che conduce all’apparecchiatura luminosa.
All’epoca della sua costruzione, quando ancora tutta la città era illuminata ad olio, si pensò di adottare un sistema d’illuminazione a gas di carbone, ma tale soluzione fu scartata. La Lanterna funzionò ad olio fino al 1860, quando si passò al petrolio. Già nel 1833 la portata luminosa del faro era considerevole (16 miglia marittime), ma nel continuo ampliamento del porto essa venne a trovarsi inglobata nelle costruzioni e al centro del golfo, tanto da perdere la sua funzione primaria e vedersi sostituire nel 1927 dal nuovo Faro della Vittoria. Continuò a emettere il suo segnale fino al 1969, quando fu definitivamente spenta.
Villa Necker
Dove
via dell’Università, 2
Come
autobus n. 8, 9, 30
L’area in cui si trova questa villa era chiamata “possessione dei Santi Martiri” e nel 1775 l’ingegnere militare Vincenzo Struppi aveva disegnato il primo giardino all’italiana che si fosse visto in città.
La casa domenicale era stata eretta in seguito a un progetto di sistemazione di tutta l’area e forse viene completata nel 1782, anno nel quale Carlo Dini traccia una pianta dettagliata della città dalla quale si nota il giardino e la nuova costruzione. Tale costruzione risulta essere a valle e non a monte del giardino stesso come previsto dal progetto dell’ingegnere militare. La proprietà era del commerciante Antonio Strohlendorf il quale in mezzo ad un ameno giardino aveva fatto erigere una casa di campagna chiamata “Villa Anonima”.
Nel 1790 la tenuta fu acquistata dal conte Cassis Faraone, ricco mercante di origine egiziana, il quale ampliò e abbellì lo stabile all’interno e all’esterno: ornò la villa di statue, di giochi d’acqua, di un magnifico giardino e di una superba orangerie.
Nel 1784 giunge a Trieste un architetto francese di nome Champion il quale viene considerato dalla tradizione come autore della villa. Con ogni probabilità egli è l’architetto responsabile della configurazione definitiva della villa Necker e della costruzione in stile analogo della villa Murat, abbattuta all’inizio del Novecento.
Negli archivi locali non esistono riscontri che lo indichino quale autore. La tradizione critica è decisamente orientata verso questa attribuzione soprattutto per un carattere molto particolare della villa Necker come della villa Murat: gli elementi stilistici fondamentali sono indubbiamente di origine francese. Si ritrovano sia la chiarezza del classicismo Luigi XVI, sia il forte senso dei volumi e delle geometrie semplici di un architetto della rivoluzione francese quale Ledoux.
La villa oltre a essere strettamente legata all’immagine della città di quegli anni è ben presente ancor oggi nella memoria triestina per essere stata casa di Girolamo Bonaparte, luogo di nascita di Letizia e Girolamo Napoleone, rifugio dei napoleonidi in esilio, ritrovo dell’alta società e della cultura non solo triestina, ma europea nella prima metà dell’Ottocento.
L’edificio preannuncia il neoclassico e presenta al piano terra un rivestimento a bugnato liscio a fasce orizzontali, interrotto da lesene, che dividono la facciata in cinque parti. Al centro emerge un ombroso portichetto semicircolare con esili colonne appaiate poste a sostegno un architrave, con una fascia dai motivi a rilievo, e una balaustra a fitte colonnine in pietra bianca.
Al primo piano si aprono le finestre, con motivo superiore a centina e a timpano triangolare alternato per ogni specchio della superficie, ripartita da fasce emergenti che creano un ritmo più ampio.
Rotonda Pancera
Dove
via Venezian, 27
Come Arrivare
autobus n. 10, 24, 30
È ormai entrata nell’uso comune l’attribuzione di questo edificio all’architetto Matteo Pertsch, come riportano tutti gli autori che trattano dell’argomento, ma negli archivi locali non esiste il progetto originale del Pertsch. Sono invece documentati interventi di ampliamento di de Puppi (1831) e di Buttazzoni (1832-33).
L’edificio era datato al 1818 da vari autori, fino a che nel 1976 Wolfgang Bensch riporta le date 1804, 1805 o quanto meno il 1806 indicando la fonte della notizia nei documenti dell’Archivio di Stato di Trieste.
Matteo Pertsch è l’architetto che maggiormente ha influenzato i modi del costruire nella prima metà dell’Ottocento in Trieste e la Rotonda è la sua opera più eloquente.
Pertsch, nel progettare la Rotonda, non ha a disposizione lo spazio razionalmente suddiviso dei lotti del Borgo Teresiano, ma un tessuto urbano frammentario, irregolare a ridosso della città murata; deve costruire in un lotto a cuneo altimetricamente malagevole.
La facciata Pertsch disegnerà sull’angolo acuto del lotto un tempio semicircolare con ordine gigante e capitelli ionici il quale può essere letto anche come una facciata piegata di un tempio prostilo.
L’ordine gigante sostiene una cornice molto spessa. Le colonne sono addossate al muro nel quale sono ritagliate tre porte finestre con balaustre tra i basamenti delle colonne stesse, e nella parte superiore, degli altorilievi a rappresentare scene di ispirazione greco-romana, con evidenti intenti didascalici (Coriolano, Lucrezia, Sacrificio di Ifigenia).
Le colonne esterne non vengono addossate alla facciata laterale, ma tenute staccate sì da far emergere la reciproca autonomia pur nella continuità stilistica e formale. Ad accentuare questa relazione/esclusione, questa pausa, Pertsch colloca nello spazio tra colonna e muratura delle facciate laterali con statua postasu di un basamento per chiudere il ritmo delle tre balaustre che collegano i basamenti delle colonne.
Palazzo Carciotti
Dove
riva III Novembre, 13c
Come
autobus n. 8, 9, 10
Il commerciante greco Demetrio Carciotti, stabilitosi a Trieste nel 1775, voleva erigere un grandioso palazzo fiancheggiante il Canal Grande. Il permesso di costruzione venne dato dalla Direzione delle Fabbriche nel 1798, con la raccomandazione di attenersi alle norme di sicurezza antincendio allora in vigore.
Per la costruzione del palazzo, Carciotti chiamò a Trieste I’architetto Matteo Pertsch.
Il palazzo, che subì molti cambiamenti durante la costruzione, alla quale sovrintendeva Giovanni Righetti, ha dimensioni imponenti: cioè è lungo 100 metri e largo 40. È in una posizione preminente, all’inizio del Canal Grande e ben visibile dal mare.
Il palazzo comprendeva l’abitazione del proprietario al piano nobile verso il mare, sedici abitazioni nei piani superiori e al piano terra stalle, rimesse e diciotto magazzini.
L’edificio nel 1831 divenne la prima sede delle Assicurazioni Generali, è stato poi sede della Capitaneria di porto e dell’Acegas (Azienda Comunale Elettricità Gas Acqua). Oggi è di proprietà del Comune che dopo il restauro deciderà a futura destinazione d’uso.
La facciata principale usa lo stesso schema fondamentale che compare poi nel Teatro Verdi: cioè ci troviamo davanti ad uno zoccolo a bugnato su cui poggiano delle colonne d’ordine gigante, soltanto nella parte centrale della facciata dell’edificio: qui però il basamento delle colonne non è un portico pervio, ma è schiacciato contro la muratura. Nel Palazzo Carciotti lo schema è svolto con maggiore ampiezza di respiro e con mezzi più raffinati e controllati. Il portico centrale a bugnato liscio è aderente al corpo architettonico e funge da stilobate alle sei colonne ioniche scanalate che raccordano armoniosamente i due piani superiori, coronati da una scenografica balaustra adorna di statue. L’edificio è completato da una cupola, che poggia su un alto tamburo, con calotta emisferica ricoperta in rame e sormontata dall’aquila napoleonica.
Le facciate laterali sono semplici, con la fascia di bugnato liscio al piano terra, ritmate solo dalle finestre e dall’architrave nella fascia superiore.
La facciata posteriore è uguale alla principale: lo stesso basamento a bugnato liscio nel portico al pianterreno che sorregge le sei colonne ioniche scanalate, chiuse da una balaustra, ma qui essa è coronata da quattro statue e da due anfore di pietra ai lati. Sulla trabeazione compare la scritta in lettere bronzee: DEMETRIO CARCIOTTI MDCCC, cioè l’anno della fine dei lavori di quella facciata.
Al piano nobile si apre una sala rotonda ritmata nel perimetro da sedici colonne e adorna di delicati bassorilievi sopraporta che trattano temi omerici, sono realizzati da Antonio Bosa e completati dalle dignitose pitture di Giuseppe Bernardino Bison (1762-1844). La sala assume l’elegante aspetto degli interni in stile Impero. La cupola segue lo schema classicistico voluto dal Pertsch, ma estraneo ai gusti del Bison. Alle pitture della sala pare abbia partecipato anche un certo Scala, autore della “Gloria sul carro dell’Aurora”, raffigurato nel tondo centrale, l’unico a colori, benché di realizzazione modesta. Nelle vele della cupola ci sono rilievi con scene tratte dall’lliade, mentre le targhe decorative sottostanti sono opera di Bison.
Sculture e bassorilievi
Molto probabilmente le sculture di Palazzo Carciotti furono suggerite dal committente stesso, che voleva essere ricordato come commerciante e benefattore della città. Otto delle dieci statue che ornano la facciata del Carciotti e i quattro vasi sono opera dello scultore bassanese Antonio Bosa (1777-1 845) allievo spirituale di Antonio Canova; le due statue a sinistra della facciata postica sono di Bartolomeo Augustini.
Sulla facciata principale le statue rappresentano, da sinistra: Portenus (il guardiano del porto romano), Thyke (protettrice dei negozianti e naviganti), Atena (protettrice della tessitura, ricorda che il proprietario era commerciante in stoffe), la Fama (dispensatrice di notizie buone e cattive), Apollo (dio dell’armonia e dell’ordine), Abundantia (con allusione al lusso del commerciante che, con rischi e lavoro, porta vantaggio anche alla città). I vasi sono di fattura pregevole, decorati sobriamente, e ricordano quelli delle ville venete. Anche le lunette sopra le finestre dovrebbero essere opera del Bosa, essendo lavorate in modo piuttosto elegante; non così i bassorilievi con motivo di putto, piuttosto grossolani, che si trovano sulla cupola. Del Bosa sono pure Ercole e Minerva posti nell’ingresso principale databili attorno al 1804, come risulta da una lettera in quell’anno dello stesso scultore, che attesta la paternità di queste due statue e dei bassorilievi della sala rotonda. Secondo Bensch essi rappresentano i simboli della protezione della casa, sono figure ieratiche e solide.
Le tre figure femminili in cima allo scalone rappresentano: Pittura, Scultura e Architettura. In esse coesistono tradizione classica e leggiadria rococò; se, infatti, per le due a seno scoperto Bosa sembra ispirarsi all’Ebe del 1796 del Canova, quella col peplo ricorda una cariatide dell’Eretteo di Atene.
Palazzo Pitteri
Dove
piazza dell’Unità d’Italia, 3
Come Arrivare
autobus n. 9, 10, 11, 17, 18, 25, 28
Costruito nel 1780 da Ulderico Moro per il negoziante Domenico Plenario è un palazzo di semplice forma che evidenzia uno schema compositivo simmetrico ed esprime compiutamente solidità e comodità. Non solo un’opera imponente, ma anche dotta, che pone all’interpretazione del neoclassico triestino una chiave composita delle sue diverse articolazioni e derivazioni.
L’attribuzione a Ulderico Moro è accettata dalla bibliografia corrente, ma non trova riscontro negli studi locali.
La facciata è tripartita composta da un ordine unico centrale formato da sei paraste con capitelli ionici e appoggiato su uno stilobate. Il bugnato è liscio disegnato da semplici fasce orizzontali. La decorazione è sobria e localizzata.
È un chiaro esempio di contaminazione fra stile e sintazzi diverse: l’esedra centrale con le decorazioni tardo barocche; le cornici tardo rococò delle finestre quadrate nella parte superiore dello stilobate e le mensole a sostegno del tetto e a chiusura della facciata.
La sapiente cornice, che simulando il pilastro negli angoli si ripropone senza soluzione di continuità formando una cornice orizzontale nello spessore dei capitelli; il gioco alternato delle finestre con frontone triangolare e centinato nello spazio racchiuso dalle paraste e il raddoppio con avanzamento delle paraste intermedie a simulare un doppio ordine su piani diversi.
Chiesa di Sant’Antonio Nuovo
Dove
piazza S.Antonio Nuovo
Come Arrivare
autobus n. 5, 9, 10, 11, 17, 18, 24, 25, 28, 30
La chiesa di S.Antonio Taumaturgo è chiamata popolarmente S.Antonio Nuovo perché sostituisce una precedente dello stesso titolo, risalente alla seconda metà del Settecento. Fu innalzata tra il 1825 e il 1849 su progetto dell’architetto Pietro Nobile, uno dei massimi esponenti del neoclassicismo triestino, che si ispirò alla grandiosità classica di celebri monumenti romani. Un tempo la chiesa si specchiava nelle acque del porto canale che s’incunea ancor oggi, in parte, nel Borgo Teresiano.
La facciata è caratterizzata da un maestoso pronao con sei colonne ioniche e un ampio frontone; sull’attico sono collocate sei statue scolpite nel 1842 da Francesco Bosa raffiguranti i Santi protettori di Trieste, cioè Giusto, Sergio, Servolo, Mauro, Eufemia e Tecla. La facciata posteriore è sormontata da una coppia di campanili gemelli.
L’interno colpisce per la vasta spazialità scandita dal ritmo lento e pacato degli archi, delle volte a botte, delle crociere, ritmo che trova la sua pausa e il suo fulcro nella cupola centrale. Nell’abside è campito l’affresco eseguito nel 1836 da Sebastiano Santi, raffigurante l’Ingresso trionfale di Gesù a Gerusalemme. La mensa dell’altare maggiore, disegnato dal Nobile, è sormontata da un’edicola con colonnine corinzie e cupola, secondo il gusto del tempo diffuso soprattutto in ambito lombardo.
Nelle sei nicchie laterali, illuminate da ampie finestre lunate, sono collocati altrettanti altari inquadrati da coppie di lesene; le grandi pale ottocentesche raffigurano Sant’Anna e la Vergine bambina, del pittore Michelangelo Grigoletti; la Presentazione al tempio, di Felice Schiavoni; San Giuseppe, di Johann Schoomann; Sant’Antonio, di Odorico Politi; il Martirio delle Sante Eufemia, Erasma, Tecla e Dorotea, di Ludovico Lipparini; la Crocifissione, di Ernest Tunner.
Chiesa Greco-Orientale di San Nicolò
Dove
riva III Novembre, 7
Come Arrivare
autobus n. 5, 8, 9, 10, 11, 17, 18, 25, 28, 30
La presenza della Chiesa Greco-Orientale nella città di Trieste risale alla prima metà del Settecento.
Il tempio, dedicato a San Nicolò e alla Santissima Trinità, fu eretto sulle Rive poiché a quei tempi Trieste era un florido emporio e, grazie anche ai commercianti greci, al porto approdavano ogni anno migliaia di battelli da tutto il Levante dove il Santo è molto venerato. Inoltre San Nicola è il patrono dei marittimi, degli armatori e di tutti coloro in generale che lavorano con i traffici del mare, protettore dei perseguitati ingiustamente e dei fanciulli
La chiesa, costruita in forma di basilica a navata unica, fu aperta ufficialmente con la prima Messa celebrata il 18 febbraio 1787.
Appena entrati, si nota subito l’Iconostasi lignea splendente di intagli dorati e pitture, pure a fondo oro; sopra i battenti delle tre porte sono raffigurati i Santi Pietro e Paolo ed altri Padri della Chiesa. Ci sono poi nella parte superiore 21 dipinti a tempera su tavola con fondo oro, che raffigurano scene evangeliche.
Nella parte inferiore ci sono 8 icone con copertura d’argento: San Nicola, la Madonna in Trono, il Cristo Re, la SS. Trinità, San Spiridione, la Madonna con Bambino, San Giovanni il Precursore; ai due lati le icone di San Giorgio e quella di Santa Caterina d’Alessandria.
Sulle pareti laterali ci sono due tele di grandi dimensioni del pittore Cesare dell’Acqua che raffigurano la predicazione del Battista e Cristo con i fanciulli.
Più avanti si può ammirare la splendida tela che raffigura l’episodio biblico noto come “L’Ospitalità di Abramo”.
Palazzo Stratti
Dove
passo di Piazza, 1
Come arrivare
autobus n. 9-10-11-17-18
Nel 1839 il negoziante Nicolò Stratti volle costruire in “Piazza Grande”, di fronte a Palazzo Pitteri un palazzo che potesse emulare quello fatto erigere dal Carciotti, che da quarant’anni dominava le rive.
Per la progettazione del palazzo, Stratti si rivolse ad Antonio Buttazzoni, uno dei più validi architetti rimasti a Trieste dopo la morte del Pertsch e la partenza del Nobile.
L’odierno aspetto dell’edificio non corrisponde al progetto di questo architetto, perché esso fu modificato successivamente da Andrea Seu, e poi da Eugenio Geiringer e da Giovanni Righetti, acquistando l’attuale volto eclettico. Le modifiche del Geiringer e del Righetti intervennero solo sulla facciata di Piazza Unità.
Dall’esame del progetto d’archivio sembra che Buttazzoni abbia considerato quale facciata principale quella che si affaccia su Passo di Piazza. Per comprendere le ragioni di questa scelta è necessario immaginare la situazione urbanistica di piazza Grande nel 1839, l’anno in cui Buttazzoni si preparava alla progettazione dell’edificio. Ai suoi occhi, i lati prospicienti Passo di Piazza e via del Teatro, si presentavano degni di maggiore considerazione, perché si affacciavano proprio nel punto di maggior fermento cittadino: vicino al Teatro (1801) e dinanzi al Tergesteo (1842), che l’architetto sapeva sarebbe stato eretto a partire dal 1840, non avrebbe del resto, potuto prevedere l’ampliamento che la piazza stessa avrebbe avuto negli anni seguenti.
La facciata su via del Teatro si differenzia da quella sulla piazza per la presenza di un ordine gigante di cinque paraste scanalate d’ordine dorico, situato nella parte centrale del prospetto, completato da balconi, stranamente asimmetrici. Il pianterreno e il primo piano sono a bugnato liscio a fasce orizzontali.
Seu regolarizzò l’assetto simmetrico della facciata, spostando i balconcini con balaustra in ferro alle due estremità e la arricchì con un marcapiano della stessa altezza dei plinti delle paraste. Sopraelevò, infine, due corpi laterali, come sulla facciata di piazza dell’Unità, decorati sulla sommità da due ringhiere.
Anche per il prospetto laterale su Capo di Piazza, che Buttazzoni considerò principale, l’autore prevede l’ordine gigante di paraste doriche scanalate, nella parte centrale, caratterizzata anche dal lungo balcone con balaustra in ferro.
Qui l’intervento del Seu è più massiccio per l’inserimento di altre due lesene analoghe che chiudono la facciata alle due estremità. Egli sottolinea inoltre la presenza dei due corpi aggiunti ai lati mediante elementi che ne sottolineano il verticalismo: al quarto piano vengono inseriti, sia alle estremità che fra la terza e la quarta finestra, piccole lesene riquadrate.
Infine la facciata prospiciente piazza dell’Unità è creata dal Buttazzoni completamente uniforme, con pianterreno a bugnato liscio ad arcate e timpani sulle finestre al secondo piano. Alle sommità sinistra e destra l’architetto colloca rispettivamente una ringhiera e un corpo sopraelevato di tre finestre, modificate poi dal seul in due rialzi identici, analoghi a quelli della facciata opposta.
Le modifiche del 1872.
Eugenio Geiringer e Domenico Righetti restaurano la facciata trasformandola radicalmente per far sì che Palazzo Stratti possa adeguarsi al nuovo volto che la piazza in quegli anni andava gradualmente acquistando. (nel 1871 era iniziata l’erezione del nuovo palazzo municipale, mentre già si demoliva l’ormai fatiscente chiesa di San Pietro, al posto della quale sorgerà il palazzo Modello). Il restauro fu radicale: neppure un solo elemento restò alla facciata a testimonianza dell’antico progetto del Buttazzoni, sia per la trasformazione di elementi preesistenti, sia per l’aggiunta ex novo di una serie di motivi decorativi che conferiscono al palazzo un aspetto pienamente eclettico. Vengono innanzitutto sottolineate le due ali del prospetto, culminanti nei due corpi laterali: al secondo e al terzo piano mediante l’inserimento di quattro lesene ioniche scanalate, scansione che continua al piano superiore con rettangoli decorativi e all’ultimo, infine, con quattro statue. La facciata è coronata da una balaustra che riprende il motivo del lungo balcone e di quelli laterali al secondo piano, e conclusa da un gruppo scultoreo, che si trovava un tempo sulla facciata postica, opera dello scultore veneziano Luigi Zandomeneghi.
Un particolare curioso è costituito, a destra di chi guarda, dal modello della locomotiva che Stephenson fornì all’Austria nel 1837. Buttazzoni lo volle come auspicio che Trieste potesse venire collegata al più presto con l’Austria.
La civetta, che vediamo a sinistra, è l’uccello sacro a Minerva e rappresenta la ragione contro le tenebre.
Nella ristrutturazione del 1872 vennero aggiunti fregi floreali e festoni, quattro statue a destra e quattro a sinistra tra finestra e finestra dei sopralzi, rappresentanti divinità classiche.
Il restauro del 1972
L’architetto Lucio Arneri e l’ingegnere Paolo Scarpa, hanno accuratamente rispettato l’antico aspetto del palazzo, che attualmente appartiene alle Assicurazioni Generali. Il pianterreno è attraversato dal Caffè degli Specchi, uno dei più antichi di Trieste, fondato nel 1839, che come il “Tommaseo”, lo “Stella Polare” e il “San Marco”, fu centro di irredentismo oltre che di ritrovo per letterati e artisti.
Palazzo del Tergesteo
Dove
piazza della Borsa 15
Come Arrivare
autobus n. 24
Il Tergesteo sorse tra il 1840 e il 1842. E’ senza dubbio una delle ultime opere appartenenti alla produzione civile di stile neoclassico che ormai stava sfociando nell’eclettismo.
Il Tergesteo si pone a cavallo fra l’edilizia pubblica e privata poiché, sebbene nato per iniziativa di una società di azionisti (“Società del Tergesteo”), sorse, con l’intento di servire come luogo adatto al commercio e come punto di incontro della popolazione, non a caso infatti viene collocato accanto al Teatro e alla Borsa, gli edifici più rappresentativi della vita economica e culturale cittadina, nei confronti dei quali si pone quasi come punto d’unione.
La struttura a crociera della galleria interna, inoltre, un tempo aperta su tutti e quattro i lati, accentua il suo carattere di nodo urbanistico, quasi riproponendo, in un edificio moderno, la funzione degli antichi incroci viari, dei fori romani, talvolta coperti, presso i quali si svolgeva la vita pubblica degli antichi
Tuttavia la galleria del Tergesteo, aperta nel 1842, solo per un anno rivestì la funzione per la quale era sorta, perché non tutti i negozi poterono essere affittati ed altri fallirono. La Società committente affittò tutto il pianterreno alla “Società dei Commercianti” che, oltre a tenervi le proprie riunioni, dal 1844 vi trasferì la sede della Borsa.
Dal 1842 al 1883 fu sede del Lloyd Austriaco, dalla cui tipografia, che aveva sede all’ammezzato, uscirono importanti pubblicazioni, fra cui la “Favilla” e l'”Osservatore Triestino”.
Durante la seconda guerra mondiale la galleria fu requisita ed adibita a deposito, cosa che peggiorò la sua situazione già precaria, cui pose fine il restauro del 1957, realizzato dall’architetto Alessandro Psacaropulo.
La sua opera si svolse in due direzioni: sostituzione dell’antica copertura a spioventi che, nonostante il suo valore storico, non poteva essere ripristinata per motivi statici, e restauro delle superfici murarie.
Per la copertura – abbassata con conseguente eliminazione dell’ammezzato della galleria – egli scelse una volta a sesto ribassato in vetro-cemento con le parti terminali a padiglione e cupola centrale con diffusori in vetro di forma quadrata che alleggeriscono la copertura e portano la luce naturale all’interno. Questa soluzione, nonostante la sua modernità si accorda tuttavia con le forme ottocentesche dell’invaso murario sottostante, rimasto pressoché inalterato con l’intervento di restauro. Un cornicione sporgente in cemento decorato inferiormente a forme astratte dal pittore e scultore triestino Carlo Sbisà, completa l’insieme nel quale si aprono moderni negozi, alcuni dei quali rifatti dallo stesso Psacaropulo.
IERI
Il progetto realizzato dall’architetto e ingegnere triestino di origine belga Francesco Bruyn (1794-1859) rappresenta un abile compromesso fra due progetti precedenti: quello di Antonio Buttazzoni (facciate esterne dell’edificio e pianta) e quello dell’architetto milanese Andrea Pizzala (galleria interna), autore già della galleria de Cristoforis di Milano.
Le facciate principali, identiche, semplificano lo schema del Buttazzoni e si presentano fondamentalmente uniformi al di sopra dello zoccolo in bugnato liscio comprendente pianterreno e ammezzato. .
Per la galleria invece Bruyn, messa da parte la soluzione del Buttazzoni che prevedeva un’ampia galleria a volta in ferro e vetro e pareti ornate da gigantesche colonne ioniche, segue Pizzala nel riprendere il motivo delle lesene, già impiegato nella galleria de Cristoforis – prototipo per il Tergesteo -e riproposto nel suo progetto per la galleria triestina. Tuttavia Bruyn non usa un ordine gigante, bensì un doppio ordine di elementi, separati da una cornice aggettante, che scandiscono le aperture ad arco del pianterreno e le finestre dell’ammezzato che allora si affacciavano in galleria.
Anche per la copertura Bruyn si rifà al Pizzala, avendo pensato anch’egli agli spioventi con intelaiatura metallica. E proprio questa copertura, all’avanguardia nell’architettura italiana, da considerare il carattere rilevante di tutto l’edificio. L’edificio è completato, infine, da due fastigi marmorei che sovrastano le facciate principali. Sono assenti nel progetto conservato al Comune perché furono aggiunti in seguito per movimentare l’aspetto uniforme delle facciate.
Il gruppo scultoreo sulla facciata che guarda piazza della Borsa è opera di Pietro Zandomeneghi.
Al centro la città di Trieste, resa figurativamente come la dea del mare Tetide, in piedi su di una conchiglia trainata da quattro cavalli che escono dai flutti marini: chiara l’allegoria del mare su cui si basano le fortune della città. A destra Mercurio, dio del commercio; fra le braccia della dea un bimbetto simboleggiante il nascere dell’industria.
Sulla facciata posteriore verso il Teatro Verdi possiamo notare un gruppo scultoreo, opera di Antonio Bianchi, con al centro Nettuno, accanto a lui Mercurio e, ai lati, le allegorie della geografia (con mappamondo e atlante) e della storia (che scrive gli annali di Trieste e dell’emporio), mentra ai lati degli ingressi della Galleria abbiamo degli sbalzi in zinco con motivi marini, coppie di delfini, simbolo del commercio marittimo, e due scudi.